Lavori in corso
a cura di Giannella Demuro
Tonino Casula, Amphaymany Pi Keohavong, Gianni Melis, Maria Paola Cau, Andrea Dojmi, Coquelicot Mafille, Nero Project, Gianfranco Setzu, Nico Vascellari e Riccardo Benassi.
Giallo, di forma triangolare e bordato di rosso, il cartello dei lavori in corso preavvisa situazioni inattese e, di conseguenza, potenzialmente “pericolose”. Per questo occorre prestare attenzione e predisporsi ad incontri imprevisti, a cambiamenti o momentanee interruzioni dello stato ordinario delle cose.
Come un cantiere urbano o stradale, anche i “lavori in corso” del PAV sono spazi in movimento, luoghi dell’imprevisto, architetture fluide che disorientano la percezione e catturano l’attenzione.
Pi Keohavong crea inedite architetture del corpo, danzando all’interno di un impalpabile spazio di luci e colori creato dalle fantasmagoriche immagini delle diafanie di Tonino Casula e dalle tecnologiche fibre ottiche da Gianni Melis. Atmosfere sospese che riecheggiano interni baconiani in cui il “corpo” del danzatore, lieve, si disfa e si perde.
La perdita e l’assenza anche nel progetto di Maria Paola Cau, che registra le voci di bambini che “giocano” giochi antichi e le rimanda attraverso altoparlanti nelle vie del paese, quelle stesse vie nelle quali altri bambini, in altri tempi, hanno giocato con identici giochi. Un effetto straniante, dove anche le stesse strade sembrano ormai aver perduto il sapore, semplice, dei tempi del ricordo.
Il gioco č il tema anche del lavoro di Andrea Dojmi, che utilizza il piccolo campo di basket realizzato per l’occasione all’esterno dello spazio della mostra, come metafora dell’esistenza. Un giovane si muove sul campo da gioco, osserva il bianco tabellone-totem privo del canestro, si ferma, palleggia, accelera il movimento, si blocca, cristallizzato in uno stato di sospensione, in un movimento che si ripete all’infinito.
Cristallizzata, nell’assenza, č anche l’opera di Nero Project che ricostruisce, lungo il tragitto che i visitatori devono percorrere per raggiungere le sedi delle mostre, una “strada” di una qualunque bidonville del pianeta, impressionante per l’estrema verosimiglianza e corrispondenza con le realtŕ piů degradate del nostro tempo: baracche di lamiere, stracci, valige abbandonate, desolazione. Segno di un abbandono che, inaspettatamente, costringe al confronto con un mondo “altro”.
Con un linguaggio piů decisamente grafico interviene sullo spazio abitativo anche Gianfranco Setzu, che realizza sui muri del paese un coloratissimo “taglio” che, riecheggiando memorie alla Hirst, si impegna in un fallimentare tentativo di integrazione con il muro piů “scrostato” del paese: quello della mostra.
Giannella Demuro |