Lo spazio debole
a cura di Giannella Demuro e Ivo Serafino Fenu
Peter Belyi, Riccardo Benassi, Dafne Boggeri, Stefano Cagol, Robert Gschwantner, Clara Luiselli, Marcello Maloberti, Nino Mustica, Alessandro Nassiri, Nero Project, Danilo Sini, Gabriele Talarico.
Sempre più, nell’ambito delle esperienze visuali del Contemporaneo, l’architettura, i suoi ambienti, le sue strutture, sono proposte come epifanie del disagio esistenziale del singolo e/o della società. Sono luoghi fluidi e insidiosi, labirintici percorsi dell’essere, strutture complesse, policentriche e casuali, mai unidirezionali, viceversa imprevedibili. Ne consegue uno “spazio debole”, relativo, che confligge con la definizione classica dell’architettura come insieme di scienze e tecniche tese a strutturare e dare forma all’ambiente esperenziale dell’uomo. Se, cartesianamente, quello architettonico era uno spazio a tre dimensioni, è nelle teorie moderne che l’architettura diviene una spazialità a quattro dimensioni, comprendendo anche il tempo come veduta partecipe e dinamica rispetto alla “scatola muraria”, in un rapporto empatico tra l’uomo e la condizione architettonica in cui vive.
Per l’arte contemporanea, il passo che trasformata le condizione in esperienza esistenziale, è breve e consequenziale. In tale contesto l’approccio razionale e strutturalista che dovrebbe soggiacere a ogni creazione architettonica cede il passo a una visione irrazionale e destrutturata dello spazio, sia esso il macro spazio metropolitano sia esso il microcosmo domestico. Emblematiche e a loro modo precursive sono le case di Edgar Allan Poe, specchio dei sensi di colpa, delle fobie e delle angosce dei propri abitanti e che conducono direttamente a tutta quella produzione cinematografica horror e splatter degli ultimi decenni, a partire da La casa di Sam Raimide l1983: quattro mura viste come una sorta di organismo dotato di vita propria, minaccioso e incombente, reso autonomo da una tecnologia ipertrofica e pervasiva.
Il russo Peter Belyi parte da una concezione costruttivi sta per creare luoghi dell’assenza, frammenti di memoria di un passato da dimenticare. Danilo Sini, coi suoi notturni suburbani, coglie insiemi architettonici in prospettive sghembe, cupe scenografie di un teatro dell’assurdo. L’austriaco Robert Gschwantner riflette, viceversa, su un materiale come l’olio combustile, sulle sue valenze simbolico-economiche ed estetiche per opere fortemente strutturate eppure dispiazzante fluidità visiva. Dafne Boggeri propone un’architettura contaminata, ibridata da differenti pulsioni visive e sonore. Le periferie urbane, i quartieri dormitorio di Riccardo Benassi si caricano di valenze biomorfiche che conducono a una lettura critica dello spazio urbano. Anche Alessandro Nassiri attraversa spazi urbani nel tentativo, destinato al fallimento, di una metaforica fuga da una tentacolare prigione metropolitana. Disegni di prigioni in progress, campi di sterminio e forni crematoi, momentaneamente abbandonati da una mano distratta compongono l’opera di Neroproject. Gli interni borghesi di Pietro Sedda, viceversa, proteggono ritualità orgiastiche contemporanee, clandestine eppure necessarie. Animati e pulsanti sono i notturni urbani di Stefano Cagol ove ogni bagliore denuncia un evento, una storia reale o, almeno, possibile. Il lavoro di Clara Luiselli ruota intorno ai temi della precarietà, della mutazione, della fragilità dell’esistenza, mediante una manualità che vorrebbe fermare il tempo. Marcello Maloberti mette in scena una visione corale e caleidoscopica della realtà palermitana in una sorta di lanterna magica carica di gestualitàe despressioni che rimandano al neo realismo cinematografico. Perennemente in bilico tra pittura e fotografia è Gabriele Talarico, che propone, infine, uno spazio umanizzato caratterizzato dalla solitudine, dall’oscurità e dalla negazione.
Giannella Demuro e Ivo Serafino Fenu
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