A...parole
La parola nella ricerca dei maestri storici nazionali e internazionali
Nanni Balestrini, Robert Barry, Joseph Beuys, Mel Bochner. Alighiero Boetti, Pierpaolo Calzolari, Giuseppe Chiari, Emilio Isgrò, Ketty La Rocca, Arrigo Lora Totino, Urs Luthi, Eugenio Miccini, Claes Oldenburg, Dennis Oppenheim, Giulio Paolini, Luca Maria Patella, Giuseppe Penone, lmaberto Penone, Lamberto Pignotti, Michelangelo Pistoletto, Man Ray, Mimmo Rotella, Salvo, Sarenco, Joe Tilson, Franco Vaccari, Ben Vautier, Gilberto Zorio
Da sempre si nutre l’illusione che mediante la parola si formuli il pensiero. E se al contrario la parola non facesse altro che circuirlo senza compiutamente organizzarlo, raccontandone al contrario le traiettorie di fuga, descrivendone atmosfere di seduzione, punti di collasso? Una volta chiamata in causa la parola ecco che si presenta il lettore, che, a sua volta, per autolegittimarsi, propone modalità di lettura, possibilità interpretative. E qui il ventaglio delle compossibilità si dispiega. Ed è così che la scrittura fonda la lettura. Dall’altro versante, poi, la rappresentazione non è stata identificata da alcuni come un dispositivo di pensiero generatore di parole? Il problema è subito posto e il quesito verte sull’intreccio, e le sue conseguenze, tra la visibilità e la leggibilità di quegli oggetti intenzionali o non-intenzionali, materiali o immateriali che costituiscono l’opera d’arte.
Filosofia, poesia, letteratura, sottotitolatura di film, di opere liriche, istruzioni di manuali di cibernetica, titoli, didascalie, fumetti, slogan pubblicitari, non cessano di praticare, a loro modo, sensi obbligati e vietati della parola. Le messe in scena, tuttavia, più linguisticamente trasgressive, esteticamente deliranti e problematicamente provocatorie, sono depositate negli archivi della storiografia dell’arte ed è proprio in quelli degli anni Sessanta/Ottanta, pervasi dal concettualismo e dalla protesta sociopolitica, che ci si accinge ad attuare qualche vampiresco prelievo. Niente di più stimolante d’altronde dell’avventurarsi nella lettura della parola, perduta o ritrovata come suono altro, usata dagli artisti come immagine, mutuata da altri contesti, scritta sulla pelle, proiettata sullo schermo... una lettura che qui non può che avvenire, come indica e prescrive il titolo della mostra, A...parole. Se poi l’azzardo è quello di mettere a fuoco uno spezzone di passato da un osservatorio del presente, allora non si potrà che restituire all’effetto rivitalizzante della storia le formule surgelate della storiografia. Le opere d’arte, la cui vita si rinnova ogniqualvolta vengono esposte, contestualizzate, parlate e contemplate, costituiscono una riserva di inesauribili sorprese emozionali, mentali, estetiche, un motore sublime di correnti di parole.
Dopo le depressioni senz’argini dell’Informale in Europa e le esuberanze oggettuali e formali della Pop Art negli Stati Uniti, l’orizzonte si raffredda emotivamente nelle analisi semiologiche, strutturaliste, nella ricerca delle transcodificazioni linguistiche e delle sinestesie percettive, mettendo in atto una dinamica dello spostamento dallo specifico categoriale all’altrove, dall’unità stilistica all’ibridazione dei frammenti, dalla cristallizzazione temporale alla disseminazione spaziale. Gli artisti espongono i loro diari, le loro annotazioni, le loro scoperte di sé (in quell’autoritratto dell’ego, per esempio, che scrive, senza descriverla, l’esistenza di Ben Vautier) e del mondo che li circonda. Sono anni in cui la prevalenza del concetto e dell’idea sulla forma e sull’aspetto manuale, chiamano in causa artisti formati anche scientificamente, linguisticamente legati alla matematica (Giuseppe Chiari non suona, ma fa musica, non dipinge ma con il pennarello rosso o nero compone il vaticinio: Art is easy), alla fisica (Franco Vaccari assottiglia, fino alla sovrapposizione, la distanza tra la realtà e il concetto nel realismo concettuale delle sue Esposizioni in tempo reale, nei suoi chiasmi Bar Code/Code Bar, nelle sue istruzioni/ammonimenti/appelli socio-politici). Eppure sono anche anni in cui il corpo riceve e comunica con parole, gesti autolesivi (Gina Pane) o autoaffermativi, il suo discorso più profondo e drammatico, indaga nei risvolti e nelle pieghe di un’identità perduta, ritrovata, travestita (Urs Lüthy). Sono gli anni rivoluzionari del Sessantotto, del Settantasette. Gli artisti si assentano dal formalismo rassicurante, guardano le scritte che imbrattano i muri metropolitani, strappano i manifesti (Mimmo Rotella) e ritagliano le riviste patinate (Eugenio Miccini), spezzano le trappole logiche del Logos (Emilio Isgrò con affermazioni apodittiche e cancellazioni, Mel Bochner con le indicazioni di non trasparenza del linguaggio), praticano la poesia come guerriglia semiologica, come investimento sensoriale (Lamberto Pignotti), la letteratura e il romanzo come riscrittura di una lettura tagliata e rifilata dalle forbici, sottratta al racconto e al documento per essere organizzata, perfino scenograficamente, in un monumento di residui e frammenti (Nanni Balestrini). Poesia visiva, Fluxus, Concettuale, Mail art, Narrative Art, sono i movimenti verso cui convergono le istanze, più presentative che rappresentative, espressive, comunque e comunicative di forme del pensiero, di suggestioni della mente, di percezioni del corpo e degli oggetti ambientali di artisti innovatori, esploratori di risonanze inedite tra spazio e idea, ma con dichiarate intenzioni autosignificanti, come Vito Acconci, Robert Barry, Mel Bochner, Dennis Oppenheim (con le sue Dream Lines sovrapposte a luoghi reali, descritte a macchina da misure e materiali), ma ancora Claes Oldenburg in America, in Europa Vettor Pisani, Pierpaolo Calzolari, e intorno a Germano Celant, ideatore dell’Arte Povera, Alighiero Boetti (che scrive, fa ricamare, duplica se stesso, moltiplica i suoi pensieri in transito, i suoi messaggi a quadretti), Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Salvo, Michelangelo Pistoletto, per nominare alcuni degli artisti in mostra. Confermano un’uscita responsabile dai limiti del quadro e dal contenimento delle cornici, le “scritture” di grande respiro della Land Art, i progetti iperdimensionati della scultura minimal. Joseph Beuys, intanto, va predicando La rivoluzione siamo noi, scrivendo formule, mappe, partiture di interviste ad Achille Bonito Oliva, a Germano Celant, proposte, su lavagne e carte, con quella sua scrittura corsiva, gotica, irregolare, come gli elementi cuspidali di un elettroencefalogramma non troppo rassicurante, appone timbri di croci, di simboli, della scritta
Haupstrom. Parentesi: La logica assassina si ripresenta in mostra dal remoto 1919, con Man Ray! Lo specchio, con sua ineccepibile logica della trasparenze e del riflesso, compare
come presenza/assenza in Michelangelo Pistoletto, concettualmente nell’opera, che presenta il proprio divenire opera, fuori da qualisiasi proiezione intenzionale, in Giulio Paolini. Gli anni Sessanta/Ottanta, con tutti i loro sommovimenti ideo-antropo-sociologici, perseguono l’autoanalisi, la pratica meta-artistica. Il loro prioritario campo di indagine è il linguaggio, deprivato di ridondanza, della definizione da dizionario, dell’enunciato scientifico (Joseph Kosuth usa le sue tautologie come indici di oggetti; Vincenzo Agnetti elebora le sue segnalazioni, proposizioni di linguaggio portatile, sostituzioni di numeri a parole; Ketty La Rocca formula i suoi sillogismi – i cervi sono veloci, gli indiani sono veloci, gli indiani sono cervi – le sue dichiarazioni di poetica - Io vedo attraverso l’ellisse delle e, il cerchio della o, la circonferenza del punto...; Giuseppe Penone opera le sue seducenti rilevazioni-iscrizioni di impronte delle cortecce, della pelle, degli occhi, della mano. Quanta musica c’è nella parola e nel suo silenzio, quanto frastuono c’è nella lettura, quanta mitologia nel quotidiano della lista della spesa, quanti rituali del discorso nel commentario infinito dell’opera d’arte...
Nell’ipotesi di scambio tra il visibile e il leggibile, in Roland Barthes, è la descrizione verbalizzata che autorizza il riversamento del testo visivo nel sistema testuale. In parallelo Umberto Eco sostiene la considerazione dell’opera d’arte come testo che si realizza nel processo interpretativo.
Ogni opera è il precipitato spaziale di un momento di riflessione: la sequenza dei momenti indica la traiettoria della ricerca di ogni artista. Parlano i punti di frattura. La tradizione orale parla per poter ricordare, quella scritta archivia per poter dimenticare, ma è nel ritaglio di ogni opera che il passato si rigenera nella tensione del presente. Il colloquio tra scrittura e immagine si protende sempre più verso oggetti, situazioni e luoghi di pubblico accesso, architetture urbane. Nello spaccato si intravedono cristalli di poesia, filosofia, scienza, semantica, sociologia. Non è nella ricostruzione del senso, ma nel fermo immagine del frammento che si dischiudono momenti di reale. Che poi la realtà dell’opera e la realtà di chi osserva sia al di là delle peripezie dei segni e resti nel luogo dell’indicibile è giusto quel che questa mostra d’arte finisce per dimostrare.
Viana Conti
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