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Chi trascorre a Berchidda i giorni di "Time in Jazz" è come investito da una gigantesca onda sonora, anomala, che ti travolge con il suo turbinio di eventi e ti costringe a trascorrere in apnea una settimana dentro un'incalzante atmosfera satura d'arte varia.

In quei giorni tutto sa di musica, d'arte e poco d'altro. Tanto che passa in secondo piano un importante aspetto del "genius loci" berchiddese che è il suo patrimonio enogastronomico.

Anche a livello massmediatico Berchidda è diventato sinonimo di musica, avendo trovato per giunta il suo profeta, che in giro per il mondo, con la sua tromba, distilla note trasudanti identità e fierezza sardo-berchiddese.

Eppure i vini di produzione locale, su tutti il fragrante vermentino, i formaggi, i salumi, i dolci, il miele, i succulenti piatti della cucina tradizionale, uniti ad una organizzazione economica e sociale ancora oggi di forte aggregazione, hanno rappresentato in passato e costituiscono tuttora un motivo di vanto e di orgoglio, e concorrono ad alimentare la rinomata "pompa" berchiddese.

Stenta ancora in paese a farsi strada non dico la realtà ma neanche il pensiero che il cibo rappresenti un semplice rifornimento di calorie, non importa di che origine, per coprire il fabbisogno energetico di una macchina da lavoro quale sembra siamo destinati a diventare, se non ci predisponiamo ad una sana ribellione.

Un buon bicchiere di vino in compagnia, una fumante zuppa consumata nel sagrato delle chiese campestri, un sospiro, un piccante pecorino stagionato addomesticato da un dorato passito di vermentino e altre leccornie sono ancora oggi l'antidoto contro la vita caotica, il ritmo insostenibile e nevrastenico della modernità.

Sono, la ricotta cun abbattu, sos brungiolos, sas tiliccas, sas panaffittas cun ozu casu, su tattalliu, sas panadas, rimedio salutare e richiamo ad uno stile di vita più lento.

Su concu, sa laldadina, sos maccarrones furriados, sas casadinas, su cattò, sa cozzula elda sono un forte stimolo a tuffarsi con ostentata avidità, da quell'arca del gusto che è l'enogastronomia berchiddese, nel suadente mare delle golosità locali, oltre i marosi del fast-food diluviante nel mondo.

Un forte stimolo, fortunatamente ancora ben accolto dai berchiddesi, ma rivolto anche agli ospiti, specialmente se corroborato dalla magia della musica.

Perché in fin dei conti anche l'arte culinaria stringi stringi è musica. Basta assistere alla preparazione de "sa suppa" sotto gli olivastri di Santa Caterina. Come in un concerto Jazz si affrontano diversi strumentisti che passano dagli assolo alla fusione dei suoni, alternando ritmi incalzanti ad altri più lenti. E guai a sbagliare i tempi delle entrate!

Il tutto all'insegna dell'improvvisazione.

"A oju" si direbbe a Berchidda, come si fa per "sa suppa" e in genere per i piatti della tradizione.

Gli ingredienti, carne di pecora, formaggio fresco, pecorino grattugiato, pane "ladu " per zuppa, pomodori pelati e concentrato, cipolla, prezzemolo, sedano, basilico, olio, sale e "dulcis in fundo", secondo la più antica tradizione, ozu casu, rigorosamente "a oju", costituiscono le note di un concerto suonato da abili massaie. E così nella frizzante aria primaverile sfrigola in apposita casseruola "armonica" la polpa di pecora tagliata a pezzetti in profumata compagnia di aglio, prezzemolo e pomodoro; accanto risponde il bubbolio fumante di carne, cipolle, sedano, basilico e sale tramutandi in saporito brodo, mentre risuona nel tagliere il ritmico sminuzzare del prezzemolo e del formaggio fresco. Esauriti questi assolo e sfumato il fruscio del brodo filtrato si assiste alla colorita fusione, con rimestio veloce e ritmato, degli ingredienti finchè il pane non si attorce immerso nella zuppa calda e fragrante. E poi altro non s'ode che brusio lento di papille gaudenti e allegri conversari.

Se "Time in Jazz" coltiva ancora l'ambizione di indicare un modello resistenziale all'invadente e uniformatrice globalizzazione dovrebbe integrarsi di più, fondersi sarebbe l'ideale, con la cultura materiale locale in un contesto in cui musica, profumi, sapori e saperi, berchiddesi e istranzos siano il collante di uno stile di vita da gustare con lentezza durante il festival, ma il cui sapore ti accompagni per tutto l'anno e ti spinga a ricercare i tempi e i modi per placare la sete, indotta dalla modernità, di una vita più naturale.

Come il vermentino a fermentazione naturale, appunto, da portarsi sui gioghi del Limbara durante i concerti mattutini per sentire in bocca il profumo fresco di macchia mediterranea e ammirare attraverso il cristallo le minute bollicine che sembrano raccogliere la luce delle stelle cacciate dal sole sorgente.

E magari, finito il concerto, sciamare per gli stazzi di "Pedru Fadda" e "Nunzia", portare a tavola dalla mensola in granito de "sa contonada", esposta ad ovest, "su concone" con latte di capra rappreso in yogurt dagli aromi di montagna o gustare la candida ricotta di capra, ricamata coi ghirigori dai riflessi dorati del miele nero dei pastori: "s'abbattu". E non sarebbe da meno puntare alle sorgenti di "Sa Rocchesa," o di "S'Eritti" per consumare una colazione più robusta: non dico "sas ungeddhas" (piedini di maiale in gelatina) offerte qualche anno fa da un cacciatore dal ferreo stomaco ad un "malcapitato" ospite d'una giornata di caccia a "Terramala", ma che dire di una "laldadina" (impanata ripiena con lardo e cipolle) insaporita con le squisite salsicce locali e accompagnata da un bicchiere di "Terra maliosa", un rosso tanto persistente quanto la sospensione infinita delle note soffiate da Paolo Fresu metamorfosatosi in suonatore di launeddas.

Se poi volessi al meglio entrare in sintonia con le balze del Limbara, lussureggianti di corbezzoli, una dozzina di ravioli di carne di cinghiale e una seada con miele delicatamente amaro onorerebbero, maritati con vermentino superiore, la tua prima colazione; vermentino che ritrovi puntuale nella versione più delicata ad accompagnare i dolcetti (tiliccas, sospiri, amaretti) offerti dai priori nelle chiese campestri dopo i concerti e di nuovo nella sontuosa versione superiore ad accompagnare la zuppa berchiddese: armonia di profumi, sapori e colori che esaltano l'identità dei luoghi (le chiese immerse nella natura) e delle genti che li popolano. E anche se la campagna agostana ingiallita e odorosa di fieno in disfacimento non ti offre la livrea colorata delle mille fioriture ci pensano i formaggi a restituirti coi loro profumi la magia delle primavere sarde.

E se poi all'ombra dei possenti olivastri o di querce maestose ci scappa "unu sultu", la siesta dei sardi satolli, lo fai in buona compagnia, dei silenti abitatori dei dolmen di Santa Caterina, dei nuraghi di San Michele e del Castello di Monte Acuto nei pressi di San Marco. Immerso nella storia, nella lontananza e nella lentezza della storia.

In fondo sono cose semplici quelle già suggerite e le altre a seguire, gesti o meglio "res gestae" della gola che ti consentono di attutire l'eccesso di velocità di giornate vissute al massimo: un sorso de "inu ac cottadu" nella cantina di Ninnio e Lineddu in centro storico con il profumo di selce e terra che promana dalla pavimentazione ultra secolare, la succulenta zuppa berchiddese assaporata nel clima tra il francescano e il boccaccesco delle feste campestri, i sospiri che sbucano dappertutto e occhieggiando ti invitano a morderli, una sapida panada. Per compiere questi peccati di gola basterebbe tra un concerto e l'altro frequentare i luoghi: bar, ristoranti, laboratori artigiani, Museo del vino, che caratterizzano in versione identitaria le loro attuali offerte e chissà che non si avvicini l'anno in cui i cibi precotti, preconfezionati della cucina fast-foodizzata non siano cacciati da sa "cozzula elda" (focaccia con ciccioli di maiale), "brungiolos" (dolcetti di ricotta o formaggio fresco), cattò (dolce di mandorle e zucchero), e nei ristoranti, relegati in un cantuccio i piatti della cucina internazionale, la facciano da padroni "concu", "fae e laldu", "cassola de petta anzonina", maccarrones furriados", "matta e fae frissa", capisaldi di una ristorazione d'identità che valorizza il lento fluire del tempo.

Per finire la giornata in buona compagnia non perdere, in piazzetta, il goloso intervallo tra i concerti serali, e lasciati condurre dai sommeliers e dallo staff della Cantina "Giogantinu" nel dorato mondo dei vermentini in abbinamento coi dolci della tradizione.

E se poi finiti i concerti hai ancora gambe sufficienti per arrivare alle terrazze del Museo del vino, il fresco della collina consiglia, in abbinamento, una fumata di sigari e la morbida grappa locale di monovitigno: gli effluvi dolci e rotondi dell'alcool che si fondono, nell'aria che respiri, col fumo azzurrino e profumato dell'avana o dell'imperdibile toscano ti daranno il coraggio e l'allegria necessari per affrontare l'ancora lunga immersione nell'onda musicale berchiddese. Perciò, quest'estate, quando vieni a Berchidda, compi un primo fondamentale gesto simbolico: liberati dell'orologio e lasciati guidare dal filo d'Arianna della musica seguendo il ritmo della natura. Dài valore al tempo e alle cose semplici e ti accorgerai quanto valgano, come fa la massaia berchiddese nel cucinare "su concu": per ben dodici ore lascia che la testa di maiale, disossata e condita, resti a contatto con sale, pepe ed aglio prima di unirci in cottura cipolle, cavoli e patate, aggiusta sapientemente il cibo di sale e pepe e poi con lentezza studiata serve un pasto divino che sfida i vini più strutturati. E capirai quando avrai ben gustato quella delizia che il tempo è danaro non quando lo bruci freneticamente nel quotidiano intreccio dei bisogni indotti, ma quando lo lasci fluire a ritmo della natura, della buona musica e della buona cucina. Che la vita ti sia lieve.

Angelo Crasta