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1. Il calendario
2. Il programma
3. Paolo Fresu: Venti parole per dir e... venti
4. Paolo Fresu: Vinti paraulas pro narrer e... venti
5. Una carta prepagata per una ricorrenza speciale
6. Progetti speciali
7. Biglietti e abbonamenti
8. I partner di Time in Jazz 2007
9. Gli amici di Time in Jazz 2007
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3. Paolo Fresu: Venti parole per dir e... venti  

Paolo Fresu:
Venti parole per dir e... venti

Pablo Neruda pubblica nel 1924, poco più che diciannovenne, l’antologia "Venti poesie d’amore e una canzone disperata" che, nonostante la giovanissima età, tocca i vertici della sua produzione poetica amorosa.

"La notte è stellata e tremolano, azzurri, gli astri, in lontananza. Il vento della notte gira nel cielo e canta", scrive nelle prime righe della "Poesia numero Venti", e questi versi ci piacciono in modo particolare perché calzano perfettamente alle notti stellate di Time in Jazz e al suo maestrale che immancabilmente guida e conduce i suoni del jazz.

Maestrale è anche il nome di una piccola ma nota casa editrice sarda: ha sede a Nuoro e pubblica un fortunato autore che abbiamo avuto l’onore di ospitare, con un suo breve scritto, nel tabloid del festival edizione 2005, quello dedicato al tema della Follia.

Giorgio Todde è un "nongiovane scrittore quasi esordiente". Così lo definisce il critico Luigi Bertolo sul sito di RaiLibri. In uno dei suoi noir "ci sarà un omicidio alle venti quando il centro dell’anticiclone ci sfiorerà", dichiara Ugolino Stramini, uno dei protagonisti de "La matta bestialità" (edito da Maestrale nel 2002), un geniale metereologo che si inventa un’originale "climatologia sociale". Leggi del corpo e leggi del clima. Al clima e a pulsioni bestiali - di una bestialità matta - sembra legata la serie di delitti che forma questa storia "gialla" e che, attraverso i venti e le temperature o il grado di umidità, giustifica la dinamica dei morti ammazzati tra Cagliari e una città non identificata sull’altra sponda del Mediterraneo.

Berchidda, durante l’affollato ferragosto, sembra effettivamente essere il "Paese del vento" deleddiano, con il suo maestrale che dura tre giorni e tre notti, e soffia da Nord-Ovest, a dispetto della tramontana corsa che il Monte Limbara trattiene tra le cime di Punta Giogantinu e di Bandhera.

Se è vero che il maestrale, fresco e pungente in inverno, d’estate mitiga il caldo rendendo l’aria più secca e respirabile, è altrettanto vero che in più occasioni, soprattutto negli ultimi anni, ci ha messo in difficoltà soffiando così forte da compromettere alcuni dei concerti serali. E’ come se fossero gli stessi venti a suonare per noi, e ci piace pensare che lui, il maestrale, sia geloso della nostra musica al punto da volerne divenire il protagonista assoluto.

In realtà i venti che hanno soffiato a Berchidda in questi venti anni sono tanti. Non solo il maestrale e la tramontana che tira dalla Gallura, dunque, ma anche il grecale, il libeccio, l’austro, lo scirocco… il levante, il ponente…

Sono i venti della creatività e dell’arte. Quelli che soffiano dentro le trombe ed i sassofoni. Quelli che soffiano in chi non soffia ma tocca, accarezza, percuote. Sono i soffi dell’anima. Impalpabili, a volte, freddi come la tramontana o caldi e afosi come lo scirocco africano degli Gnawa, nostri ospiti due anni fa. Sono quelli delle migliaia di artisti (oltre duemilacinquecento) provenienti da tutto il mondo e dai quattro venti, che hanno traversato e calpestato il palco di Piazza del Popolo o gli altari delle chiesette campestri, i boschi del Limbara o le radure, alla ricerca del suono e dei venti che li hanno portati fino a noi con i loro strumenti o i loro utensili per creare.

Un po’ come le querce piegate dal maestrale, la musica a Berchidda e dintorni si è mossa porgendo l’orecchio verso la vita e arrampicandosi sempre verso l’alto, come l’edera di Grazia Deledda. Come una canna al vento.

Venti anni di jazz non sono pochi. Un traguardo importante. Forse siamo diventati maggiorenni proprio ora e non nel 2005 con la fortunata edizione dedicata alla "trance digitale". Un po’ come i ragazzi del Giappone che assurgono alla maggiore età dopo ben quattro lustri. E poi venti sa di numero perfetto: nella cabala tradizionale è un numero importante, come lo è in molte civiltà e religioni. Il numero venti rappresenta il Dio solare presso i Maya: un mese, nel loro calendario religioso, era fatto di venti giorni, e su questa base matematica – la numerazione vigesimale – lavoravano non solo i Maya ma gli stessi Galli a noi più vicini. Nel Buddismo, invece, un Kalpa designa una "durata infinitamente lunga", e un grande Kalpa si divide in quattro fasi composte, ciascuna, di venti piccoli Kalpa, che a loro volta si scompongono in ere di ferro, bronzo, argento e oro. I musulmani della Tunisia festeggiano il nuovo anno civile secondo il calendario Giuliano (quello in uso prima della riforma di papa Gregorio XIII) intorno al 13 gennaio, ed è questa la prima delle venti "notti nere" successive alle venti "notti bianche", il periodo più freddo dell’inverno.

Il numero venti ha anche un suo quadrato magico ed è impiegato una sola volta nel Corano; so anche che venti è il numero colombiano descritto per la prima volta nel 1949 dal matematico indiano D. R. Kaprekar, ma non ho idea del perché, mentre sappiamo che è l’ultimo della serie dei primi numeri composti…

Insomma, è un numero importante il "nostro", e il nostro anniversario è una ricorrenza altresì prestigiosa e noi lo sappiamo bene. Del resto, anche il ventesimo secolo è appena trascorso: Time in Jazz ha voluto attraversare il passaggio d’epoca dedicando un intero festival alle donne ed al mondo femminile intitolandolo "L’altra metà del jazz".

Era il lontano 1988 quando siamo nati e i concerti si tenevano la prima settimana di settembre in quella che chiamavamo la "Piazzetta Rossa", cioè la piazza in legno (da poco smontata e ristrutturata) che si affaccia su quella principale dove, dal 1997, montiamo il grande palco del festival.

Non sempre sono stati anni facili. Nel 1992 si tenne un festival di protesta per via della mancanza di finanziamenti dovuto all’incuria ed alla disattenzione dei nostri interlocutori politici di allora. Tutti gli artisti vennero a Berchidda gratuitamente e io scrissi queste parole: "Finché ci saranno uomini capaci di raccontarsi con uno strumento, con il proprio corpo e le proprie mani, con i colori, con una pietra o un pezzo di legno, noi non moriremo. L’immaginario è la nostra linfa ma non si può comprare per nessun prezzo". Erano "altri tempi", come recita anche il titolo della nostra rassegna a cavallo tra Natale e Capodanno, ed effettivamente siamo andati avanti spediti e sempre più convinti della necessità di fare e di programmare il diverso, l’inascoltato e il non ancora visto o percepito.

Sulla scia delle collaborazioni con Pilar Cossio Gomez, Salvatore Ravo, Sergio Cara, Gisela Moll e Pinuccio Sciola, nel 1997 prese il via l’attività del PAV (Progetto Arti Visive) curata da Giannella Demuro e Antonello Fresu: da allora, sia l’arte contemporanea che le immagini e il cinema, coordinato e diretto da Gianfranco Cabiddu, hanno aperto nuove porte nell’arte di Time in jazz.

Nel 1998 nacque finalmente l’Associazione culturale Time in Jazz, e questa si sostituì, non senza conflitti, all’organizzazione del Comune di Berchidda che ha sempre partecipato attivamente allo sviluppo del festival con notevoli sforzi. Il festival si tenne per quell’unico anno nel piazzale del Museo del Vino/Enoteca regionale. Il pubblico cresceva a dismisura e noi pretendevamo la chiusura della piazza. Il dibattito si ridusse ai centimetri da utilizzare per poter lasciare lo spazio al passaggio delle macchine: già l’anno prima mi ero guadagnato un’ingiunzione da parte del vigile urbano in carica all’epoca. A festival concluso, l’Amministrazione ci tolse il finanziamento e noi ci appellammo al TAR vincendo la causa. Time in Jazz, tra soddisfazioni e difficoltà, era ormai una realtà forte e viva che si era fatta le ossa dal 1988 con quel volontariato che lo aveva reso grande.

Nel 1995 iniziano a girare i gruppi da strada contribuendo a fare del festival una festa collettiva capace di coinvolgere sempre di più la comunità berchiddese che, se i primi anni poteva risultare scettica sul senso dell’iniziativa, oggi è quasi totalmente complice di un progetto che abbraccia tutta la realtà del Nord Sardegna. I luoghi di culto, primo fra tutti la chiesa appena ristrutturata di Sant’Andrea, ebbe modo di ospitare uno dei concerti più straordinari della nostra storia: quello in piano solo del "nostro" Antonello Salis. Mai prima di allora un pianoforte era entrato in quel luogo sperduto tra il giallo delle stoppie estive, i vigneti e gli oliveti. Le lacrime commosse di Antonello e il sudore del pubblico accalcato all’interno della chiesetta ci convinsero a continuare in questa direzione: nell’arco di pochi anni, abbiamo utilizzato non solo tutte le chiese campestri di Berchidda, ma anche molte e bellissime dei paesi limitrofi. Jazz e misticismo, dunque. Una delle foto che io amo di più è stata scattata dall’amica Nina Contini Melis qualche anno fa e ritrae il musulmano Dhafer Youssef con il suo oud dietro la statua di Sant’Antioco di Bisarcio. Infrangendo le barriere musicali e quelle religiose, Time in Jazz è diventato un buon esempio di integrazione e di comunicazione fra le genti, le fedi e le razze, invitando musicisti africani, turchi, macedoni, tunisini, marocchini, algerini, lapponi, newyorkesi, scandinavi, mitteleuropei, sardi, bretoni, vietnamiti…

Un’apertura, questa, già descritta nel manifesto artistico e filosofico del festival, scritto nell’ormai lontano 1988 su un foglio A4 con la mia Olivetti Lettera 32, e perseguito con rigore. E’ il manifesto delle musiche e non della musica. Un festival di jazz, dunque, ma soprattutto un festival che crede nella propensione del jazz, musica dinamica e in divenire per sua stessa natura, all’apertura verso il mondo con i suoi intrecci geografici e stilistici.

Da qui i temi di ogni edizione. Temi che diventano una sfida lessicale laddove ogni artista ed ogni spettatore si sente parte di un teatro fatto di verità e non di finzione. Dove ognuno (il pastore, l’impiegato, il volontario, il tecnico, il cuoco, il musicista, l’artista visivo, l’accordatore di pianoforti, s’oberaju mazore della chiesa campestre…) si sente parte di un percorso virtuale fatto di ragione e di emozione. E’ il percorso di Semida, il Museo all’aperto di Arte e Natura fortemente voluto dal PAV che, in comunione con l’Ente Foreste, pone un interrogativo nuovo sul senso dell’arte. E’ grazie a questo che nel 2001 nasce l’idea di portare alcuni dei nostri concerti (rigorosamente acustici) nei boschi e nelle foreste della nostra montagna. Ed è da questi che nel 2005 si inaugurano i concerti all’alba nella magia dei colori e dei profumi del mirto, del cisto e dell’elicriso, con il sole che sorge a levante dietro l’isola di Tavolara

Time in Jazz sa di tutto. Sa di trance nella sua follia collettiva, sa di pecore munte al suono de sas cadinas, e questo suono sa a sua volta di digitale tra passato e presente. Sa di padelle appese a mo’ di scena sul palco e di motocarrozzelle metalliche assurte al ruolo di oggetti d’arte moderna. Time in Jazz sa di gente. Di fuochi e di Bande, di fanfare e combo, di soli vertiginosi e di orchestre da camera. Sa di poeti improvvisatori e di rime in limba. Di percussioni e di bicchieri che risuonano e brillano sollecitati dalla luce del sole appena nato. Sa di amici che non ci sono più e di nuovi arrivi. Sa di incontri e di scontri. Di fidanzamenti e di dispididas. Di bimbi, di giochi e di grandi. Di cibo e di vino. Di dolci. E sa di mandorle amare e di vigne che profumano di vermentino.

Sa di musica, Time in Jazz. Quella dei campanacci delle greggi che a volte accompagnano il suono di chi è appena arrivato da New York o da Berlino, e sa di voci ataviche tra una Basilica, una cantina e una strada. Ma sa soprattutto di vento. Di quel maestrale che è il vero protagonista e che porta quanto ha raccolto a Nord-Ovest del mondo, rubando un po’ di suono e rendendolo ad altri.

E’ il suono dei venti. Tanti sono gli anni di Time in Jazz e noi siamo, del maestrale, il suo aquilone e la sua vela spiegata.

Paolo Fresu