Gli incastri poliritmici dell'“architetto” Steve Coleman L'altosassofonista con i suoi Five Elements a Berchidda e in versione acustica a Madonna di Castro
L'uomo giusto al momento giusto. La geniale intuizione del direttore artistico del festival di Berchidda è corretta. Nessuno, più di Steve Coleman, può oggi dare davvero un senso compiuto al tema di questa edizione di Time in Jazz, poiché la sua filosofia musicale è proprio ciò che meglio si può agganciare al significato più profondo di "architettura". Con i suoi Five Elements, in attività dal lontano 1981, l'esemplificazione è poi praticamente perfetta. Ne avremo una riprova nell'attesa esibizione di martedì 12 a Berchidda, quando Steve Coleman (sax contralto), Jonathan Finlayson (tromba), Tim Albright (trombone), Jen Shyu (voce), Thomas Morgan (basso) e Marcus Gilmore (batteria), saliranno sul palco di piazza del Popolo per chiudere la serata. Ma sarà non meno interessante, già nel pomeriggio del giorno prima (lunedì 11, alle 18), accostare le architetture sonore, e in questo caso rigorosamente “unplugged”, di una versione ristretta del gruppo, con quelle fatte di pietre e segni del tempo del bellissimo santuario di Madonna di Castro, a pochi chilometri da Ozieri. Steve Coleman è - in assoluto - tra i protagonisti di rilievo del jazz contemporaneo; tra gli artisti che meglio hanno ereditato la lezione dei grandi maestri del passato di cui propongono uno sviluppo logico, continuando nel solco segnato da Duke Elllington, Charles Mingus, John Coltrane in un continuo confronto tra il jazz e le altre musiche del mondo. Dagli anni Ottanta, con una sintesi che ha combinato la pulsazione swing con i ritmi del funk e dell’hip-hop, Coleman ha esteso la sua indagine alle tradizioni africane, asiatiche e cubane; creando gruppi e progetti in cui interagiscono musicisti di jazz e cantanti rap, percussionisti latinoamericani e vocalist asiatici. Il tutto pronto a creare un mélange particolarmente intenso e coinvolgente, dove si stratificano e convivono le esperienze più diverse che sicuramente oltrepassano i confini dello steccato prettamente jazzistico, esondando in territorialità sicuramente più vaste, sempre sistematicamente e dannatamente coinvolgenti. In una proposta così ricca e vitale, oltre al confronto con altre tradizioni musicali Steve Coleman ha contemporaneamente approfondito il suo legame con la tradizione jazz, ad esempio con il bebop di Charlie Parker (vecchio grande amore del padre), che appare come uno degli stimoli più travolgenti nella sua musica. Nato a Chicago il 20 settembre del 1956, Steve Coleman ha studiato con una leggenda locale quale il sassofonista Von Freeman e successivamente si è trasferito a New York. Qui, a Brooklyn, a metà degli anni Ottanta, ha dato vita al collettivo musicale M-Base insieme ad altri futuri protagonisti del jazz d’oggi, come il sassofonista Greg Osby e la cantante Cassandra Wilson. Coleman è stato attivo come leader con numerose formazioni: il piccolo ed oggi ormai storico gruppo dei Five Elements, l’orchestra The Council Of Bilance, il gruppo con tre rapper, Metrics, il quartetto di sax e ritmica Renegade Way e altri ancora, fra cui l'interessante e recente Lucidarium. Geometrie e ritmo sono le basi primarie del suo pensiero musicale, straordinariamente sempre in perfetto equilibrio con tutti i colori della tavolozza musicale tout-court. Grande sostenitore della continuità della musica nera per eccellenza, quello che davvero colpisce ed affascina della sua proposta sono gli sprazzi di rhythm & blues latenti, le improvvisazioni secondo i dettami post-free, l'impiego di radicali tappeti "jungle" (spesso accostati a tangenziali figurazioni vocali di chiaro stampo iper-metropolitano); il tutto energicamente proposto su straordinari sottofondi ritmici binari. Jazz che solo apparentemente può sembrare di "nicchia", ma che trasmette invece il grande significato di comunicazione ecumenica, travolgendo spesso tutto e tutti (critica compresa) e regalando concerti che, quasi sistematicamente, si trasformano in veri eventi musicali. |