Paolo Fresu "Occhi"
Si può vedere la musica?
Ci sono molte teorie a questo proposito e molti lavori pertinenti. Tra tutti la ricerca artistica del pittore svizzero Paul Klee che, nei primi decenni del Novecento, metteva in relazione suoni, timbri e cromatismi in una sorta di polifonia pittorica dove il grafema musicale diventa elemento segnico.
Ed è forse proprio il cromatismo a unire insieme due mondi, quello percepito dalla vista e dall’udito che, come ammoniva Goethe nella sua “Teoria dei colori”, sembrano a volte essere distanti. Cromatica è l’impercettibile variazione metamorfosica che porta gradualmente un colore a un altro e una nota verso l’altra vicina. In teoria musicale l’intervallo cromatico è lo spazio tra due semitoni che, prima dell’avvento de “Il Clavicembalo ben temperato” (Das wohltemperierte Klavier) di Johann Sebastian Bach nel 1722, si considerava ineguale per via del comma, ossia la nona parte del tono da dividere in 4 + 5 oppure con 5 + 4.
Ma la musica non è fortunatamente pura matematica. Se c’è qualcuno che riesce addirittura a vedere una sinfonia con tutta la ricca gamma di gradazioni timbriche, armoniche e melodiche ci sono altri che, attraverso il mestiere, colgono nella musica le relazioni interne e la costruiscono, partendo dalle fondamenta, come fosse un palazzo.
La materia dell’armonia insegna infatti che le fondamentali legiferano in seno all’accordo e alla tonalità e che dunque solo posizionando in modo sapiente le prime pietre e concatenandole sarà possibile innalzare un palazzo solido. Nel caso della musica un solido componimento…
Ma quali sono le gradazioni pittoriche e visive del jazz?
La musica afro-americana nasce agli inizi del secolo scorso e, come il cinema, si sviluppa in bianco e nero. Dunque l’affascinante pensiero di Klee sembrerebbe inadatto per una
musica intorno alla quale si dovrebbe parlare di chiaroscuro più che di cromatismo.
In realtà non è così. Ciò che ci è arrivato del jazz è tutt’altro che monocromatico e lo stesso racconto di questo linguaggio che ha rivoluzionato il Novecento è estremamente ricco e variegato.
Una sorta di Portrait in Black & White (citando un noto tema di Antonio Carlos Jobim) per una musica sfavillante e policroma come poche che nasce dall’incontro-scontro di due razze spesso divise dal tono della pelle.
Ancora una volta è il colore a creare e diversificare e gli occhi a divenire lo strumento critico, sociale e politico attraverso il quale nasce un linguaggio di rottura in risposta alla segregazionerazziale.
Per questo il jazz, più di qualsiasi altra musica, è da vedere ancorché prima che da sentire.
Solo guardandosi infatti è possibile crearla sullo stesso palco o in uno studio di registrazione e solo osservando, con gli occhi aperti o chiusi, è possibile coglierne l’ampio spettro cromatico costruito attraverso la stratificazione dei suoni degli strumenti e l’intreccio delle melodie e delle armonie che formano il tessuto compositivo. E’ per questo che si ama da sempre assistere ai concerti. Per potersi emozionarsi collettivamente e vedere ciò che, sentendo un cd a casa, non si coglie all’ascolto.
Sono gli occhi di chi, con un solo sguardo e senza parole, riesce a dire più di un intero discorso. In un attimo lungo quanto una sinfonia e profondo quanto un lamento. Gli occhi profondi di Miles Davis o melanconici di Chet Baker, quelli sfavillanti di Satchmo o quelli mistici di Coltrane. Quattro sguardi per altrettanti mondi musicali differenti che convivono dentro un’unica musica chiamata Jazz. Ciò che noi si vorrebbe fare in questa ventinovesima edizione di Time in Jazz è sentire con gli occhi provando a volare con le ali poste lo scorso anno e librandoci verso l’ignoto grazie a piedi forti che ci spingono verso l’alto. Questi sono i tre temi affrontati negli ultimi anni e questa è la nostra missione dal 1988: provare a vedere il bello attraverso il boato del mondo.
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