Paolo Fresu: Il Quinto Elemento
Sono cinque gli elementi del pensiero orientale: terra, acqua, aria, fuoco e hieron, la “cosa divina”. Così è anche nel pensiero induista ed è in quello giapponese che l’elemento del vuoto appare in una forma autonoma a rappresentare “ciò che non appartiene al quotidiano”.
Il nulla e il vuoto, teorizzati a suo tempo da Aristotele, sono quella quintessenza medioevale che il filosofo greco chiamerà etere e che è ciò di cui sono costituiti le sfere e i corpi celesti.
Dopo quattro anni di festival dedicati ai quattro elementi, affrontare un nuovo tema così apparentemente labile e misterioso è per noi di Time in Jazz l’intraprendere una nuova sfida.
Perché il Quinto Elemento tocca religioni e filosofia, medicina e psicologia ma anche chimica, astrologia e pensiero offrendoci spunti interessanti per divagare intorno al tema dato attraverso la musica e l’arte.
Passate le molte edizioni di rigore tematico che ci hanno costretto a costruire i programmi con progetti adatti, stavolta sembrava che il vuoto offrisse l’opportunità di spaziare a volo d’uccello nel ricco panorama delle musiche e delle arti del mondo. E’ durante la composizione del cartellone che ci siamo resi conto della sua complessità.
Perché se fino a ora i temi affrontati hanno indicato un percorso e una riflessione intorno al viaggio creativo, il “nulla” e il “vuoto” offrono uno spazio d’interpretazione talmente ampio da lasciarci inerti di fronte alla ricchezza e vastità del pensiero filosofico.
Quali progetti portare, dunque? E, soprattutto, con quale criterio scegliere una strada piuttosto che un’altra?
Se le vie sono visibili, è il tema a suggerirci una leggerezza che è trasparente, nel tentativo di annullare l’arte per renderla a una concezione primordiale che stride con la contemporaneità odierna.
Jazz è sinonimo di Novecento e dunque di materia. Di stratificazioni architettoniche, industriali e sociali quando l’unica trasparenza verso la quale va il mio pensiero è la foto attribuita a Charles C. Ebbets del 1932 che ritrae un gruppo di operai che lavorano sul cantiere del GE del Rockefeller Center di New York. A cento metri di altezza consumano il loro frugale pasto seduti precariamente su un’impalcatura, gambe penzoloni sulla città e con una vista che ha la trasparenza del vuoto.
E’ dal paradigma del pieno e del vuoto, dunque, che siamo partiti un anno fa quando, dopo avere parlato di acqua, aria, terra e fuoco, sembrava che il rapporto con il pianeta e con i suoi innumerevoli problemi si fosse reciso.
Se il senso dei venticinque anni di Time in Jazz sta nel suo collocarsi tra arte, creatività e realtà, il futuro del festival potrà essere solo nel suo respiro che sa di aria e dunque di suono ma anche di natura e di terra.
Pieno e vuoto sono concetti che appartengono alla musica e all’arte più di qualsiasi cosa. Suono e silenzio, spazio e materia. Esiste musica piena o eterea, pittori magmatici e altri dalle linee nitide e rigorose.
Se il jazz nasce come musica corale creata attraverso la stratificazione delle culture e dei generi, questa ha nel tempo affinato, grazie ad alcuni dei suoi protagonisti, la sua quintessenza che oggi si manifesta, ad esempio, in alcuni dei progetti discografici dell’etichetta ECM di Monaco di Baviera o nelle rarefatte sonorità dell’Europa del Nord.
Ma sarebbe ingiusto individuare solo nel silenzio la quintessenza della musica. Quello che Aristotele chiama nel primo libro del De Caelo il “corpo primo”, nel linguaggio dei suoni non è che la forma musicale capace di armonizzare il processo creativo.
E’ qui, forse, il vero nesso tra il Quinto Elemento e la ventiseiesima edizione di Time in Jazz.
Il jazz, in quanto musica improvvisata, ha una filosofia del fare che è immediata. Ciò lo distingue ad esempio dalla musica classica laddove la rigidità di certi schemi legati a un passato ingombrante non le permettono quella flessibilità che invece è della musica afroamericana.
Jazz come metafora di un’arte che rinuncia alla strutturazione eccessiva e simbolica in cerca di un vuoto che a sua volta è sinonimo di libertà e che è tutto meno che cartesiano e razionale, nonostante esistano in seno alla sua struttura rigide regole e un’organizzazione collettiva che ha a che fare con il gioco di squadra e con il rapporto sinergico tra il solista e il gruppo.
Gli elementi del vuoto e dell’etere, relazionati con il concetto dello spazio, hanno da sempre permeato le complesse costruzioni programmatiche di Time in Jazz a partire dal 1997 e il rapporto tra la musica e i luoghi ha per noi un significato speciale e ha assunto, nel tempo, un ruolo decisivo nello sviluppo del pensiero creativo che invade la programmazione festivaliera.
Se la metafora del jazz è la rinuncia delle regole per uno spazio immaginario ancorché prima che reale, esiste una “musica dei luoghi” che è fatta dagli stessi dove il rapporto che si crea è tra elementi altri che sono la natura filosofica del suono e l’interscambio con gli spazi che generano energia e che sono in grado di suggerire altri spazi e altri percorsi.
E’ quando la musica si sente con gli occhi e si guarda con le orecchie che questa lievita per diventare leggera, trasparente e atemporale, avvicinandosi a quel concetto di vuoto e di spazio che è il “nulla” aristotelico.
Arturo Toscanini usava dire che “all’aperto si gioca a bocce” ma, si sa, era un uomo rude senza peli sulla lingua.
D’altro canto i greci e i romani conoscevano bene il valore dell’arte in rapporto con la società e quello della quintessenza del suono quale mezzo duplicatore dell’emotività dei sentimenti e del pathos.
E’ attraverso lo spazio e il silenzio che la musica può offrire all’arte il suo vero ruolo d’idioma riflessivo, plasmante e catalizzante.
In una civiltà come quella di oggi, dove tutto si basa su un’esteriorità che si rivela perdente, il bisogno dell’etereo si fa in alcuni casi suono e silenzio: se il quotidiano non ci appartiene come lo vorremmo, il pensiero orientale si rivelerà profetico.
Paolo Fresu
|