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installazione fotografica collettiva sul festival


Che movimento, a Time in Jazz. Cinque giorni di corse attorno a Piazza del Popolo. Il quarto giorno può capitare di incontrare uno per la prima volta, Dov’eri? Qua, da lunedì. Qua sì, ma di corsa, e in corsa ci si incontra solo per caso. Non è utile d’altronde indugiare per i giovani dell’associazione, dalla piazza alla sede alle mostre. E neppure al pubblico conviene attardarsi, per non perdere eventi che talvolta si sviluppano in contemporanea, o quasi.
Poi, quando il festival è finito e stai assorbendo gli scatti e le emozioni, degli altri scatti ti vengono in soccorso, a raccontarti quello che avevi perso: ecco Iva Bittova – dov’eri quando cantava così? – ecco Jeanne Lee a Bisarcio, solenne. Fotografare Time in Jazz è un modo, uno dei più nobili, per rallentarlo, salvarlo: rivoluzione filosofica, rappresaglia linguistica.
Si lascia fotografare Time in Jazz, da tutti. Quelli ufficiali, di fotografi, ai aggirano come ladri davanti alla prima fila. Girano per le chiese, le mostre, i sentieri. Cercano le finezze. Maniaci dello scatto, per chi li guarda storto dalla prima fila. Tutti gli altri – volontari, spettatori, artisti, anche – in modo più grossolano, cercano piuttosto una testimonianza, prove, documenti. E poi, a volte, anche loro trovano la foto comme il faut. Ma in un posto come la Berchidda di quei giorni forse è più facile, dicono.
Cosa si potrebbe fare con lo sterminato materiale fotografico raccolto a Berchidda in venti edizioni del festival? Se ne potrebbe riempire una parete, certo, per una mostra. Insieme, si potrebbe, specie per le primi edizioni, recuperare la memoria storica della manifestazione e dei suoi vent’anni. Le foto più antiche, e più “artigianali”, hanno un fascino particolare, raccontano anche la Berchidda di vent’anni fa, le metamorfosi di Piazza del Popolo.
E poi beh, quante piccole storie, dentro e fuori dal festival; c’è il racconto di quel bambino in bicicletta che girava sempre quel festival lì, sempre in mezzo a tutti – aveva domande per ognuno – e alla fine lo vedete, che assiste, davanti al camion del service, la bicicletta ferma.
La filosofia che muove questa mostra è per così dire enciclopedica, da Jon Hassell ai volontari agli anziani della piazza. C’è Paolo Fresu con una birra in mano, e il trombettista in mille pose, e a volte c’è solo la tromba, e Paolo Fresu lo devi immaginare tu, perché dev’essere lui, lì, è la sua mano, quella. Magia del non detto, in molti scatti d’autore. E così in tante fotografie restano dei movimenti a metà, delle azioni abbozzate, delle espressioni incompiute. Lì si ferma l’occhio del lettore, da lì si staccano forme, incanti, romanzi.