Mangiare, bere, alimentarsi. Pratiche quotidiane automatiche, fondamentali, nate da pulsioni vitali. Il cibarsi, più di altre, è una pratica semanticamente complessa, sempre più carica di simbologie, metafore e codici.
Nella società attuale, infatti, le tematiche legate al cibo e all’alimentazione, sono intimamente coinvolte in una fitta rete di rimandi ed articolazioni che attingono agli ambiti più disparati della cultura odierna: dalla biologia alla fisiologia, dall’antropologia alla psicoanalisi, dalla filosofia e dalla religione a tutta una serie di nuove problematiche sensibili
connesse alle biotecnologie e alla globalizzazione.
Cibo come nutrimento, come rito sociale, come indice etnico o culturale. Ma anche variabile politica, economica e perfino etica. Cibo come confronto tra identità individuale e collettiva.
È a questa complessità che l’arte si rapporta, producendo opere che sono testimonianza del nostro mondo e del nostro tempo.
Sebbene da sempre ricorrente nella storia dell’arte, sia come mera rappresentazione oggettuale e figurativa, sia
come espressione dei molteplici significati simbolici ad esso connessi, tuttavia oggi il tema del cibo incrocia la ricerca visiva con una sempre maggiore frequenza.
Differenti gli approcci, altrettanto distinti e variabili gli esiti. La mostra “Dishes” ne offre uno spaccato parziale ma intrigante, raccontando in modo sensibile e efficace le dinamiche del mondo contemporaneo.
Erik Chevalier e Pietro Sedda indagano, con metodiche differenti, il
mondo e le sue emergenze. Nei loro lavori il cibo è assenza, privazione, sofferenza. Attraverso una pittura concettuale sporca e minimale, Chevalier ci ricorda le grandi emergenze del pianeta: i nomi che affiorano dalla materia pittorica sono nomi di piatti tipici di paesi dilaniati da guerre le cui popolazioni vivono nella carestia. Del cibo, nelle opere di Chevalier, resta solo la memoria, il fremito dell’assenza.
Se Chevalier guarda a paesi lontani, Sedda rivolge la sua attenzione al mondo occidentale, alla vita metropolitana e alle subculture di un’umanità al margine, e lo fa attraverso la telecamera sfocata e indifferente di un cellulare, come a voler prendere piccoli appunti visivi di ciò che l’occhio registra, per offrirli come spunto di riflessione allo spettatore.
Alla Storia recente e alle sue tristi icone è dedicata l’indagine di Gian Franco Setzu. Le immagini dei
grandi dittatori della Modernità, come imbarazzanti immagini votive, raffinate ma improbabili, sono destinate ad essere monito per i singoli e per le collettività.
Ironica ma crudele è l’opera di Gianni Nieddu che racconta l’indifferenza della natura e l’immutabilità delle sue leggi: i pulcini sono vittime sacrificali in attesa di divenire pasto per rapaci. Il concetto di identità e individualità non appartiene al mondo naturale, e ognuno possiede il proprio inderogabile posto nella scala alimentare. Rappresentazione o metafora, l’opera di Nieddu costringe la riflessione attorno ai limiti “naturali” della specie uomo.
Sciola, che opera da sempre sulle urgenze socio-ambientali della realtà umana e naturale, propone la metafora “biologica” dell’arte come cibo e nutrimento: piccole sculture di basalto diventano, attraverso un coerente slittamento di senso, organismi vegetali viventi. L’artista, seminando i semi di pietra, rinnova il rito ancestrale della fecondazione.
La metafora dell’arte come nutrimento sottende anche l’opera di Paola Dessy. L’artista offre una torta-corpo, che riproduce in scala reale la sua immagine, come cibo per gli spettatori. È un pasto che si compie come rito comunitario: l’artista dona
se stessa affinché chi lo riceve possa trarne nutrimento per lo spirito.
L’arte diventa cibo, ma anche il cibo diventa arte, nelle opere di Marco Pili: qui il pane è cibo inteso nella sua accezione culturale, portatore cioè di un messaggio che arriva dalla tradizione e che l’artista, con il suo lavoro e la sua creatività, rende universale ed eterno.
Giannella Demuro e Antonello Fresu