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03. Fuori Fuoco  

 

Fuori Fuoco

a cura di Marco Senaldi


Il fuoco – l'elemento più magico, più misterioso, è certo il più ancestrale, perché legato alla creazione e alla distruzione. Ma il fuoco significa anche luce e ombra, chiarore e buio – ed per questo è anche strettamente legato al vedere.

Si dice “fuoco” infatti il punto in cui, data una lente, si ha la massima visibilità dell’oggetto sottoposto al dispositivo di visione. Ed anche il punto in cui i raggi convergenti di una lente sono in grado di mandare (fisicamente) a fuoco un oggetto.


La “messa a fuoco” diventa dunque un'operazione indispensabile non appena si affacciano sulla scena storica dei dispositivi meccanici di visione e di riproduzione delle immagini – prima cannocchiali e telescopi, che poi divengono macchine fotografiche, cineprese, videocamere... La visione nitida diventa un'esigenza che certifica la verosimiglianza. Più le immagini prodotte dai dispositivi sono “a fuoco”, più esse certificano la verità di ciò che ritraggono. Tutto il resto, è destinato a cadere nell'errore fotografico.


Tuttavia, non appena la tecnologia definisce questo standard visivo, il suo opposto, lo “sfocato”, espulso dalle leggi della verosimiglianza, rientra in gioco sotto specie estetica. Questo è uno dei motivi per cui lo sfocato, (come il ralenti), casuale o voluto, ha sempre attratto gli artisti – non tanto per le sue “qualità pittoriche”, quanto perché, in quell'aberrazione tecnica, l'artista riconosce ancora la sopravvivenza di un modo umano del vedere; in quel caso, è la sensibilità pittorica che si impadronisce del mezzo fotografico.


Quello che però è permesso alla fotografia sembra più difficile con le immagini in movimento: possiamo sopportare un ritratto o un paesaggio fotografici che “sembrano dipinti” - ma un film è un racconto per immagini e non può funzionare se queste ultime sono “sbagliate”. Ma anche nel campo del cinema e del video sperimentale la misura lunga del racconto viene rimpiazzata della brevità del poema. Fin dall'epoca di A.G.Bragaglia, regista del sorprendente Thais (1916), dove la scena dell'ebbrezza è resa da un misto tra “mosso” e flou, lo sfocato ha assolto a questa funzione poetica – che trova piena realizzazione in L'étoile de mer di Man Ray (1924), ispirato appunto alla poesia omonima di R.Desnos.


Anche nel corto dell'allora diciannovenne Orson Welles, The Hearts of Age (1934), si percepiscono influenze del cinema d'avanguardia, ma è solo con la stagione dell'underground che il frammento, il fuori fuoco, l'ingrandimento, le code di rullo costituiscono la base di una nuova estetica dichiaratamente sporca, distorta, allo stato grezzo: è il caso di Stan Brakhage, o di Ken Jacobs (che manipola fino a sconvolgerla una pellicola dei primi del 900), o di Tony Conrad (che realizza un non-film basato solo sul lampeggiamento visivo). O di Paolo Gioli, che crea un film “senza macchina da presa”, solo con un apparato stenopeico, perciò senza obiettivo, dunque fuori fuoco per definizione; una sperimentazione che apre le porte agli ultimi esperimenti: il video di Douglas Gordon, in cui le mani riprese colpiscono l’obiettivo fino a “stordirlo” e spegnerlo; la stringente analisi dei macchinari di ripresa di Harun Farocki, che contemplano ogni tipo di dispositivo, dalla videosorveglianza alla microvideocamera installata sulla testata di una bomba; per finire con l’enigmatico video di Paolo Meoni, in cui l’orizzonte visibile coincide con la sua stessa contraffazione – là, dove l’esperienza del vero sconfina, si sgretola, e si incendia in una sfocata finzione.